domenica 29 aprile 2012

La Terra dei nostri figli 2

I marciapiedi feriti di Bucaramanga

Il reportage dalle strade di una città colombiana, tra i "desechables", i "parches" e i braccati della penombra.
I marciapiedi feriti di Bucaramanga

Di Martina Vultaggio


Bambini si tuffano nel fiume Atrato dal porto di Quibdo, sulla costa Pacifica - foto di Javier Galeano - AP

Bucaramanga - Colombia, 10 settembre 2002
Sono arrivata a Bucaramanga ormai da un mese, e tutto quello che sto vivendo è così sorprendentemente diverso dalla realtà in cui sempre mi sono trovata immersa, che sento il bisogno di scrivere per raccontare, per non dimenticare, perchè quando si torna alla comodità della vita di ogni giorno tutto sembra più distante.
Bucaramanga è una città più o meno grande (conta circa un milione di abitanti) situata al nord della regione di Santander; la divide dal confine col Venezuela una delle tre catene rocciose che attraversano il paese. Qui la situazione è relativamente tranquilla: pare che la guerriglia si tenga lontana perchè nelle banche cittadine viene custodito il suo patrimonio, mentre i paramilitari si tengono ben nascosti e agiscono con l’oscurità, attaccando, minacciando e uccidendo le persone che vivono in strada: i desechables, i gamines, come vengono chiamati. Queste persone per me hanno iniziato a rappresentare molto: sto infatti lavorando per una ONG., Niños de Papel, che si occupa del recupero di minori di strada.


Le funzioni del progetto sono molteplici: un’equipe di educatori di strada si occupa dell’avvicinamento ai ragazzi, dei loro eventuali bisogni, o problemi, soprattutto di salute. Attraverso giornate ricreative, partite di calcio, momenti di condivisione, si cerca di spingere il giovane a consumare meno droghe, e a fare una scelta per il futuro: entrare nel centro di accoglienza, dove si fermerà cinque settimane, mentre psicologi e pedagoghi ne tracciano il profilo e la storia personale. Se il ragazzino supero questo primo periodo, e non è facile, viene trasferito per una quantità di tempo variabile in una casa di campagna, dove verrà assistito per risolvere i suoi conflitti con le droghe, o con il suo passato, o entrambi. La fase successiva è l’inserimento in una delle case famiglia Emaùs, dove viene data al minore la possibilitá di lavorare, o studiare. Qui si ferma fino ai 17-18 anni, quando comincia a essere preparato per la vita indipendente, attraverso una fase di sgancio dall’istituzione. Esiste inoltre un progetto simile, in due fasi, rivolto a ragazze.
Noi volontari siamo in quattro, uno spagnolo, due basche ed io, italiana. Ci dividiamo tentando di seguire un po’ tutte le fasi, di coprire le eventuali giornate di vacanze degli educatori...ci prestiamo insomma secondo il bisogno.

Io fin’ora mi sono attivata come educatrice di strada: è un lavoro molto vario, e anche pesante, perchè si tratta di percorrere la città da una parte all’altra, visitando i “parches”, formati da gruppi di persone, quasi sempre fissi, con un punto di ritrovo fisso. Qui ci si ferma a chiacchierare, si gioca a domino, o a carte: molto spesso ci sono anche persone adulte, gente de vive per strada da una vita: o facce nuove, che vengono da Bogotà, da Santa Marta, da Barranquilla... in fuga da una minaccia, o da una famiglia violenta, o semplicemente in cerca di novita. Tutti gli abitanti di strada hanno caratteristiche comuni: li si può vedere con una bottiglia di plastica nascosta sotto la maglietta, che aspirano colla, in continuazione ; fumano marijuana, o bazuco, un ricavato degli scarti di coca mischiato con polvere di mattone e altre schifezze, che viene fumato in pipe artigianali; bevono alcohol etílico, perchè costa meno e sballa più di una birra. Ognuno ha il suo coltello nascosto in qualche cucitura, o in uno zaino; gli effetti personali sono considerati sacri, così come le scarpe. Gion Daivi, 23 anni, un giorno si è presentato all’associazione con uno squarcio che dall’inguine arrivava a metà pancia: a qualcuno piacevano le sue scarpe, e lui aveva tentato di difenderle.
Ogni Parche ha un nome e le sue caratteristiche: c’è il parche di San Miguel, uno dei pochi dove si trovano anche alcune ragazze; molti adulti, molto alcohol, in genere con noi allegri e tranquilli, ma tra loro spesso violenti, violentissimi: non passa giorno senza che arrivino ai coltelli, sono pieni di ferite. Si ritrovano in una zona verde chiamata la Giungla, dove è sconsigliato passare di notte, e di giorno è meglio non entrarci da soli.
C’è il parche dello stadio, dove andiamo in visita di una decina di ragazzi: da quanto ho capito questo parche è il più ricercato da signori con belle macchine e portamento distrinto, che non disdegnano un servizietto una volta ogni tanto, soprattutto se economico. E così l’altro giorno abbiamo portato in ospedale, d’urgenza, Carlos, 26 anni, debilitato dall’Aids, sei mesi che non riesce quasi a mangiare nulla. L’ospedale pubblico è un posto dove si va soprattutto a morire. E’ una delle cose che più mi è rimasta impressa: gente buttata per terra, moribondi, aspiranti suicidi, tutti mischiati e a malapena guardata in faccia dai quattro dottori presenti. Le medicine, le flebo, i contenitori per le analisi, bisogna comprarseli. Se sei indigente e non hai soldi, o nessuno ti reclama, peggio per te: ti dimettono e fine.

Carlos lo lasciamo al pronto soccorso, dopo avergli comprato un paio di borse di ghiaccio, e aver insistito perchè gli misurassero la febbre, dato che tremava tanto da far saltare la barella. Medicine specifiche per la sua malattia, neanche a parlarne: un trattamento contro l’Aids dev’essere importato dagli Stati Uniti, e una dose per un paio di settimane costa non meno di 400 dollari.
Il parche della calle 30 si trova in una zona della città poverissima, dove bisogna stare molto attenti. Ancora non ho avuto molti contatti con questi ragazzi. Per lo più sono sempre in giro a rubare, o a mendicare; dormono in un capannone che funge da immondezzaio cittadino...qui almeno sono protetti dai paramilitari e dalla polizia.
Con molti di loro entriamo in contatto anche la notte, quando due volte alla settimana distribuiamo cibo in zone predefinite, a rotazione. Durante queste serate si conoscono nuove situazioni di marginalitá : una sera si sono presentate 30 famiglie di desplazados, persone obblígate a lasciare la loro casa a causa del conflitto.

Dimenticati dal governo, braccati dalla guerriglia o dai paramilitari, molto spesso questa gente costruisce nuovi, enormi quartieri di baracche, o occupa case disabitate. Queste famiglie erano state sgomberate il pomeriggio dalle forze dell’ordine, perchè occupavano un terreno abusivo. Pioveva, mentre noi cercavamo di intrattenere i bambini, anche per distogliere lo sguardo dagli occhi carichi di suppliche dei genitori, di bisogni ai quali non possiamo dare, purtroppo, risposte.
Oltre all’animazione di strada ho inoltre supportato il lavoro di Sandra, altra volontaria, con le ragazzine. Si tratta di fortificare le loro abilità sociali e l’autostima. La casa dove vivono si trova in provincia di Bucaramanga, a Piedecuesta. Qui vengono portate dal Bienestar Familiar, i servizi sociali, e vi rimangono solo se realmente motivate al cambiamento. Se no, sono libere di andarsene. Molte vengono pescate dalla polizia durante retate nei locali di prostituzione; altre scappano da situazioni familiari difficili. In questo momento, due di loro, di 14 e 17 anni, sono incinte, mentre due hanno un bambino, momentáneamente affidato ad un’altra famiglia, in attesa della maggiore età della madre.Il padre spesso non si sa neanche chi è.

Le ragazze, le donne, sono, possiamo dire, la parte più emarginata e sfavorita del paese. Non esistono istituzioni che si facciano carico dei loro problemi, o per ragazze madri. La cultura è profondamente maschilista. Molte si lamentano di essere maltrattate o violentate dai loro stessi compagni. Molti ragazzini scappano di casa perchè non ne possono più di vedere la madre pestata a sangue.
Mi rendo conto che tutto quello che sto raccontando è crudele, duro, e che sembra che io stia vivendo un incubo. Questo non è vero, anzi. Non voglio essere, in questo mio reportage, quella che cerca solo il lato sensazionalistico, negativo. Farei un torto a tutte le persone che ho conosciuto, se non parlassi dei sorrisi, della creatività, dell’energia e della furbizia con cui vivono la vita. C’è voglia di cambiare, di svilupparsi.
Il mio viaggio è solo all’inizio.

(Fonte: Selvas.org)

1 commento:

  1. Un tema non facile che va affrontato con gradualità ed in relazione al senso di identità raggiunto da proprio figlio o figlia. Certamentre occorre dare ugual valore al presente come al passato e ciò è possibile quando il ragazzo (o la ragazza) ha raggiunto una concezione di sé positiva.
    Riguardo all'adozione internazionale i bambini devono poter sentire “accettabili” non solo i genitori naturali ma anche l'etnia da cui provengono. Ritengo che parlare loro delle pesanti problematiche in cui versano i paesi da cui provengono “non aiuta” molto: possono sentirsi coinvolti in una valutazione negativa... Teniamo presente che il bambino che ha subito l'abbandono e poi il “distacco” dal suo paese di origine (ed ha verosimilmente attraversato la vita di istituto) ha verificato il non-valore della sua persona e, nella nuova condizione, teme di non essere in grado di farsi accettare.
    Occorre quindi aiutarlo a rafforzare la stima di sè anche parlando del suo paese d'origine, ma in modo “positivo”.
    Personalmente ritengo che queste problematiche vadano approfondite nei gruppi di famiglie in cui le domande spesso trovano una risposta adeguata.
    Emilia - anfaa

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