martedì 12 febbraio 2013

Adozioni, due gemelli “inaspettati”

 fonte: http://com.unita.it/


Autore: Federica Fantozzi
Tre anni per prepararsi a insegnare a un bambino come andare in bici e capire una lingua diversa dalla propria, tre giorni per dimenticarselo, ventiquattr’ore per memorizzare il terrificante numero di poppate quotidiane necessario a due neonati: «Ma non c’è uno schema? Un pezzo di carta?».
Elisa e Riccardo, 39 anni, toscani, liberi professionisti, in lista per un’adozione internazionale in Colombia. «Gli psicologi dei corsi ci avevano avvisato: scordatevi i neonati – racconta lui -. Possono arrivarvi ragazzini di 12-13 anni, con l’infanzia devastata. Nati da madri in carcere e cresciuti in cella con lei. Noi ci sentivamo pronti per due fratellini e avevamo dato disponibilità fino a 7 anni di età. Passavamo i mesi immaginando il volo di ritorno da Bogotà, il loro stupore, gli odori di una città diversa, i primi libri che avremmo scelto».



Aspettando una telefonata che non arrivava, hanno dovuto spezzare quel tempo sospeso. «L’estate scorsa siamo andati in vacanza lontano, con il cellulare spento. Sul lago Tanganika. Un rischio calcolato. Sapevamo che in Colombia la situazione era bloccata, il boom economico ha rallentato le adozioni all’estero. Ci avevano detto: risentiamoci a Natale. Siamo tornati il 19 agosto stanchi morti».
La mattina dopo ha squillato il telefono: il centralino del tribunale di Firenze. «Avevamo fatto richiesta anche per l’adozione nazionale. Ce ne eravamo quasi dimenticati e la documentazione stava per scadere. Volevano vederci».
Il 24 agosto Elisa e Riccardo, con il faldone di 500 pagine, sono entrati nello stanzone di fronte a cinque giudici donne che l’hanno fatta breve: «Abbiamo una doppia proposta: due gemelli. Sono in ospedale non perché siano malati: hanno 24 giorni. La madre si è avvalsa del parto anonimo. Come da prassi, avete un po’ di tempo per pensarci. Il bar è di fronte al portone». Loro hanno accettato senza bisogno del caffè. E alle 14 sono usciti in tilt, gentilmente sospinti dalle signore magistrato: «Vi aspettano al reparto Maternità di Grosseto».
Venerdì pomeriggio di fine agosto. Amici, parenti, medici, tutti in ferie. Nessuna rete di sostegno e un’afa da 40 gradi. «Ci siamo chiesti come si trasportassero i neonati. È scattato un giro di telefonate. I vicini di casa hanno fornito un ovetto, la psicologa dell’associazione il secondo. Mia sorella da Viareggio ha racimolato le culle».
Per i due neo-genitori, l’esperienza all’ospedale di Grosseto resta indimenticabile. «Siamo stati dentro 24 ore. Corso accelerato di pannolini, biberon, bagnetto. Abbiamo passato la notte accanto alle loro cullette senza chiudere occhio. Quando li abbiamo portati via piangevano tutti, dal primario alle ostetriche, e le infermiere ci hanno regalato il corredino dei primi giorni. Sulla superstrada ci ha persino fermato la polizia: andavamo troppo piano…».
Quando avete capito di avercela fatta? Riccardo: «So da sempre che ce la faremo. Ma sarà difficile. Ce lo siamo detti anche stanotte, ormai hanno sette mesi ma non dormiamo più di due ore di fila». Elisa: «Tre anni di attesa sono lunghi, è vero, ma si cresce molto. È un percorso bello e intenso, fondamentale. Ti prepari ad accogliere un estraneo. Ti fai mille domande su salute, malattie genetiche. Ma quando i giudici hanno formulato la proposta, ho sentito una serranda alzarsi dentro di me. Felicità pura. Mi si apriva la vita davanti. L’unica preoccupazione rimasta è dare loro la serenità che meritano. Il nostro caso rientra in una percentuale ristretta, siamo stati fortunati». Avete considerato strade alternative come la fecondazione? «No, io venivo da un’interruzione terapeutica di gravidanza sfociata in parto artificiale. Ero così traumatizzata da non riuscire più a rimanere incinta. Basta con ospedali e trattamenti medici: volevo accudire un bambino che, come noi, avesse bisogno di amore».
Cosa racconterete ai bimbi della loro storia? «La verità. Cercheranno sui social network risposte che noi non abbiamo, ma non possiamo tenerli sotto una campana di vetro. La loro madre naturale ha compiuto un grande gesto d’amore: ha voluto dar loro un futuro. Per lei proviamo gratitudine e rispetto: la nostra felicità deriva dal suo terribile dolore. A noi tocca creare le condizioni perché i bambini lo capiscano».

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